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Ed Io l’amavo – FRINGE CATANIA OFF
Associazione I Musicanti
17 Ott
- 20 Ott
19:00
Sala grigia
Prevendita 12 €
Botteghino 12 €
Botteghino studenti 10 €
“… Ed io l’amavo” – Filippa Di Dia, vittima viva della mafia
Con l’espressione “vittima della mafia” solitamente si intende chi viene ucciso, ma a ben pensarci non è così, o meglio, non è soltanto così. È vittima anche chi subisce indirettamente questa violenza. E la stessa parola “indirettamente” non è appropriata, non calza bene. Nell’atto unico “… Ed io l’amavo/ Filippa Di Dia, vittima viva della mafia”, testo in siciliano, a parlare è la moglie di Vito Pipitone, sindacalista marsalese della Federterra (CGIL di allora) che l’8 novembre del 1947 fu freddato da un colpo di fucile allo stomaco. Il giorno dopo avrebbe dato vita ad una manifestazione contadina per la lottizzazione e assegnazione agli agricoltori del feudo Giudeo, in esecuzione della legge Gullo, secondo cui le terre incolte avrebbero dovuto essere divise tra i braccianti. Ovviamente questa nuova norma incontrava il dissenso dei latifondisti e della mafia. Vito fu ucciso mentre, in bicicletta, andava a trovare la madre. Lasciò la moglie Filippa e quattro figli, uno dei quali malato (che morirà all’età di 14 anni). Da quella notte la vita di Filippa cambiò radicalmente. Vitò non morì sul colpo, fu portato all’ospedale di Marsala dove i carabinieri lo piantonarono, non consentendo alla moglie neppure di parlargli, finché avrebbe potuto. Seguirono funerali mai visti per un comunista, con cinquemila persone e le istituzioni, ma poi fu il silenzio. Filippa e i bambini furono abbandonati e isolati con il loro dolore, le loro domande e soprattutto la loro miseria. Filippa però doveva andare avanti, in qualche modo, con i suoi figli, per i suoi figli e lo fece accanto a quella lampada “addrumata”, davanti alla finestra “muta” dove era solita aspettare il ritorno di Vito. La stessa lampada alla quale confidava le sue paure, prima dell’assassinio.
L’atto unico oltre al “post mortem” di Vito, ripercorre la loro vita insieme, l’amore di Filippa per il marito, la sua dedizione per “quelle mani che seppur “abbruciate di lu suli e cu l’ugna nivure (con la pelle bruciata dal Sole e con le unghia nere per via del lavoro nei campi)”, lei amava tanto. Sullo sfondo una Marsala post guerra, fatta come una cutra di pezza dove ogni contrada è come un pezzo di una coperta in patch work di colore diverso, memore del bombardamento degli americani, in seguito al quale gli ‘nfami saccheggiarono tra le macerie e “ora sono alleati dei campieri, dei mafiosi”, che spiano i contadini e li minacciano venendo in campagna “col ferro”, la scupetta, ossia il fucile per farli desistere dalla volontà di affrancarsi dallo status di braccianti. Filippa racconta tutto lucidamente, dettagliatamente, incluse le riunioni “carbonare” tra gli agricoltori, fatte di sera e cambiando posto di volta in volta. Segue una full immersion emotiva. Filippa implora il marito di non farla questa “guerra per la terra”. Un’accorata invettiva contro il male, dove la natura diventa matrigna e si fa metonimia del male di uno Stato incapace e dell’organizzazione criminale che lo ucciderà. Parole in realtà mai pronunciate, perché Filippa comprende e sostiene la giusta battaglia del marito. Eppure a rispondere sarà l’anima di Vito, che non si pente del suo sacrificio: “La terra è pane pi l’agricoltori e io un la pozzu tradire/ Picchì un s’abbannuna una matri e si difenne finu quannu si more e puru dopo morti la terra ancora ti protegge, si fa coperta e cavura t’accoglie”. Eppure il testo consegna a chi vi assiste la speranza che nasce dalla condivisione e dalla memoria. Una memoria viva che si affida a chi ora sa per germogliare.
Chiara Putaggio